L’energia e l’impegno per il proprio lavoro a un certo punto possono smettere di essere la fiamma che alimenta il nostro motore, diventando un fuoco che brucia? La risposta è sì ed è quello che viene definito burnout, ovvero esaurimento professionale. Negli ultimi anni è diventato un vero allarme sociale, poi la pandemia ha peggiorato le cose. Ne parliamo con la psicologa e consigliere dell’Ordine Regionale degli Psicologi, Vania Blanco (nella foto).
«Nel 2019 l’OMS definisce per la prima volta il burnout come una sindrome- dice la psicologa Blanco- demarcandone la differenza da una condizione medica o da una malattia, e annoverandolo come fenomeno occupazionale, legato cioè esclusivamente alla sfera lavorativa. Nel passato, infatti, il burnout era descritto in maniera meno specifica tra i “problemi collegati a gestire la vita quotidiana”. Tradotta letteralmente la parola significa “bruciato”, “esaurito” e rimanda a un complesso di sintomi provocati da uno stress cronico maturato, per l’appunto, sul luogo di lavoro che incide gradualmente sul benessere della persona fino a un simbolico spegnimento come la fiamma di una candela».
Le manifestazioni sintomatiche riguardano aspetti fisici, psichici e comportamentali. Quali sono i principali sintomi? «Sensazione di vuoto e di stanchezza, frequenti stati di malessere come mal di testa o dolori muscolari o, ancora, frequenti malattie dovute a basse difese immunitarie. Mentre tra i sintomi psichici prevale il senso di fallimento o di scarsa autostima, sentirsi senza speranza, intrappolato o sconfitto, perdita della motivazione, sensazioni di distacco dal proprio lavoro, stato di costante tensione e irritabilità. I più comuni sintomi comportamentali, invece, sono la procrastinazione e la ridotta produttività, l’incapacità di assumere delle responsabilità, assenteismo sul lavoro, il ricorso a cibo, alcol o sostanze per gestire i sintomi emotivi».
I casi di burnout da stress da lavoro sono aumentati durante la pandemia, soprattutto tra i lavoratori in smartworking. La giornata lavorativa a casa dura di più, si fanno più riunioni, si è reperibili anche al di fuori dall’orario di lavoro. A raccontarlo sono i dati statistici. «Lo smart working ha purtroppo accentuato il fenomeno del burnout per due motivi- spiega Vania Blanco- In primis perché lavorare da remoto significa rinunciare agli aspetti relazionali e ricreativi legati alla routine lavorativa e quindi al rapporto con i colleghi e alla condivisione di momenti di pausa che rappresentano elementi migliorativi della qualità di vita in ambito professionale. Inoltre, per ovvie caratteristiche, lo smartworking è strettamente correlato all’iperconnessione, alla tendenza cioè a restare collegato ben oltre il tempo dovuto per la difficoltà di definire in maniera chiara e netta l’orario di lavoro, poiché il luogo coincide con quello della vita quotidiana».
Secondo il report Indeed del 2021, nell’era post -Covid, in cui numerosi settori lavorativi hanno risentito di difficoltà legate alla gestione dello stress, il fenomeno del burnout ha subito un aggravamento, raggiungendo il 52% nel 2021, contro il 43% degli anni precedenti alla pandemia.
«Alcune manifestazioni sintomatologiche del burnout- aggiunge la psicologa- sono sovrapponibili a quelle tipiche della depressione, tanto che numerosi studi hanno evidenziato negli anni passati che la distinzione tra burnout e depressione è alquanto labile. Certamente, quello che caratterizza il burnout è un’eziologia strettamente connessa all’area occupazionale e non ad altre cause, come potrebbe essere per la depressione. Quando i sintomi di burnout diventano intensi e prolungati nel tempo appare difficile individuare la presenza di una sovrapposizione con una Depressione Maggiore. In tali casi il trattamento consigliato può essere psicoterapeutico e, se necessario, con supporto farmacologico, secondo la storia individuale, della gravità e della durata dei sintomi presenti».