Hanno sempre creduto nella ricerca, nell’innovazione e in un modello di Università dal volto umano con una formazione medica e scientifica che prendesse coscienza della persona come unicità irripetibile, considerandola sempre come fine e mai come mezzo. Anche se le premesse economiche, soprattutto in questo momento, non sono favorevoli e il compito arduo, al Campus Bio-Medico di Roma non hanno mai perso di vista questa strada. I fatti lo dimostrano. Nei mesi più duri della pandemia, il professore Massimo Ciccozzi (nella foto)- responsabile dell’Unità di statistica medica e di epidemiologia molecolare del Campus- insieme alla sua equipe sono stati tra i primi nel mondo a identificare lo ‘spillover’, il salto di specie che dal pipistrello ha portato il virus a infettare l’uomo.
Adesso mentre la stima dell’incidenza delle varianti sulle infezioni nazionali di Covid è in crescita, arriva finalmente una buona notizia: un test che permetterà di identificare le varianti in circolazione in Italia. Il Campus Bio-Medico sarà uno dei primi istituti a riceverlo: «Arriverà tra pochissimi giorni- spiega ad Insanitas Massimo Ciccozzi- È un test rapido, tutto italiano, sviluppato dal virologo Francesco Broccolo in collaborazione con l’azienda italiana Clonit. Non si tratta di un test antigenico, ma di un vero e proprio tampone molecolare. È, dunque, un esame molto affidabile che in sole due ore permetterà di sapere se il paziente, positivo al Covid, ha una delle tre varianti che in questo momento sono quelle più importanti: quella inglese, quella brasiliana e quella sudafricana».
Quali laboratori potranno usare il test rapido?
«Il test ha una tecnica che può essere utilizzata in tutti i laboratori, in cui si può fare un’analisi di tipo molecolare ed è una vera e propria marcatura: si basa su una piccola modifica della tecnica della Reazione a catena della polimerasi (PCR), utilizzata per amplificare il materiale genetico prelevato con i tamponi molecolari. La tecnica, chiamata PCR Multiplex, utilizza delle sonde molecolari, degli oligonucleotidi cioè una serie di aminoacidi che emettono fluorescenza, solo se riescono ad agganciarsi alla sequenza mutata presente sul gene S del virus. Noi sappiamo che le mutazioni importanti che determinano una distinzione tra una variante e l’altra e che sono quelle implicate nel discorso dell’efficacia vaccinale, sono le mutazioni sul gene S. Se ci sono queste mutazioni e a seconda del tipo di mutazione che si trova sul gene S, si possono distinguere le tre varianti. Quando questa sonda trova la corrispondenza da parte del virus, lo aggancia ed emette luce. In questo caso sappiamo che ci troviamo in presenza di una variante. Per capire poi di quale variante si tratta, bisogna sottoporre il campione al sequenziamento».
Perché è così importante riconoscere le varianti del Covid 19?
«Lo è perché queste varianti stanno prendendo il sopravvento rispetto al ceppo originario di Whuan. Per essere più precisi, possiamo dire che stanno prendendo il sopravvento rispetto al DG614, la variante che ha sostituito il ceppo di Whuan. Si pensa ormai che la variante inglese diventerà prevalente e prenderà il posto del DG614. Si tratta, dunque, di un nuovo ceppo virale che è leggermente più contagioso soprattutto per i più giovani. Il virus non fa distinzioni di età e di sesso: infetta là dove può infettare. Purtroppo quello che riscontriamo è una maggiore infezione nei giovani perché sono meno attenti, meno accorti ai livelli di protezione. Per questo motivo dovremmo avere tutti un po’ più di attenzione nel proteggerci».
In un suo lavoro pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica “The Lancet”, con il virologo Arnaldo Caruso, avete descritto un nuovo ceppo trovato a Brescia in un paziente oncologico che è poi guarito dal Covid. Cosa dimostra questo episodio?
«Si è trattato di un caso molto particolare. Era appunto un paziente oncologico che per sei mesi è stata affetto da Covid ed è guarito senza mai aggravarsi. La variante fa capire che anche un sistema immunitario, se sbilanciato verso un’altra patologia importante, può innescare delle mutazioni del virus che lo ha contagiato, proprio perché il sistema immunitario non riesce in pieno a combatterlo. Genera quindi questo tipo di mutazioni come se il virus fosse sottoposto ad una pressione ambientale, in questo caso del sistema immunitario dell’ospite, che lo porti a mutare, ma non a sconfiggere il sistema immunitario. Nel caso di questo paziente all’inizio il virus ha fatto almeno sei, sette mutazioni all’interno dell’ospite. E nel giro di solo un mese ne abbiamo calcolato tre o quattro di più. È un esempio questo di involuzione del virus all’interno dell’ospite, come normalmente fa un virus del tipo dell’HIV. Come ho detto fin dall’inizio, il coronavirus SarsCoV2 muta in continuazione e cerca di cambiare aspetto per essere in equilibrio con il sistema immunitario ospite».
In questi mesi con la sua equipe su cosa state lavorando?
«Stiamo studiando i titoli anticorpali tra la prima e la seconda dose del vaccino Pfizer nelle persone che sono state vaccinate. Un altro studio sperimentale molto interessante lo stiamo facendo al Campus, con la collaborazione di una società cinofila, per addestrare i cani a riconoscere il Covid dall’odore. Una cosa del genere è già stata fatta ad Helsinki e sembra che l’esperimento sia andato a buon fine. Speriamo di ottenere risultati interessanti nella lotta contro il Covid come è già accaduto per il tumore della prostrata. Grazie alle proprietà del sistema olfattivo canino, estremamente sensibile e di grande utilità nel differenziare odori organici complessi, i cani sono riusciti a discernere le persone che hanno questo tumore e chi no. Studieremo, infine, ancora di più le varianti con questo nuovo test il cui arrivo è imminente».
Cosa ci ha insegnato questa pandemia e quanto è importante sostenere la ricerca scientifica con finanziamenti adeguati?
«Abbiamo tutti imparato che risulta fondamentale un sistema di sorveglianza nazionale che ci dia veramente dati importanti su quello che è il ceppo virale o batterico che “gira” e che ha provocato la pandemia o l’epidemia. Parliamo quindi di monitoraggio molecolare, di fare sequenze non solo del batterio, ma di qualunque altra epidemia o pandemia che seguirà a questa. Probabilmente non sarà l’unica e questo è un dato molto importante. Ancora più importante è un rafforzamento della sanità territoriale che in Italia è mancato, insieme ai fondi per la ricerca di base. Cominciamo, allora, con il non mandare all’estero, nell’Europa del nord, in America o in Brasile, come del resto è successo anche a me, le persone più brave dopo averle formate. Facciamo in modo che i giovani cervelli non siano più in fuga dal nostro Paese, dando loro dei fondi».