PALERMO. È diventato un caso anche in Italia da quando il “Federico II” di Napoli ha lanciato l’allarme sulla maggiore incidenza di parti prematuri da parte di donne incinte risultate positive al Covid. Secondo uno studio condotto dagli scienziati dell’Università della California, l’infezione da Sars-Cov-2 durante la gravidanza può aumentare fino al 60% il rischio di parto prematuro, dato che schizza al 160% nei casi di donne affette da ipertensione, diabete e obesità. Insanitas ha parlato dell’argomento con Marcello Vitaliti (nella foto), direttore della “Terapia Intensiva Neonatale, Neonatologia e Nido” dell’Arnas Civico di Palermo.
Già dal 2020 il Cdc americano (Centers for Disease Control and Prevention) aveva lanciato un monito sul legame tra infezione da Covid -19 e parti prematuri nelle donne gravide. Cosa dicono i dati odierni, hanno confermato quelli analizzati in precedenza?
«Questo fenomeno è stato confermato, infatti, rispetto alla normale incidenza della prematurità che è del 10% sulla popolazione generale, nelle donne gravide affette da Covid-19 sale al 13%. Il focus del problema reale è che durante il lockdown totale noi abbiamo avuto un calo della prematurità, perché in quel periodo abbiamo avuto la riduzione di tutte le malattie infettive, che sono una delle maggiori cause di prematurità al di là del Covid. Un altro fattore che ha ridotto l’incidenza è stato uno stile di vita più oculato, sia dal punto di vista dell’alimentazione che alla riduzione dello stress legato al fatto di doversi muovere da casa. Questo è un dato osservazionale di estrema importanza. Da quando è cessato il lockdown, infatti, abbiamo avuto l’incremento nella popolazione delle gravide Covid».
Perché le donne incinte affette da Covid partoriscono prematuramente?
«Sicuramente sono determinati dalla gravità dell’infezione materna ma non è questo l’unico elemento, anche perché al momento non abbiamo dati scientifici in merito che confermino una correlazione diretta tra virus e prematurità, però sappiamo che quella da Sars-Cov-2 è una infezione che comprende tutti gli organi, ciò dipende ovviamente anche dalla gravità della stessa. Le citochine rilasciate durante l’infezione sono elementi proinfiammatori e rappresentano degli stimoli al parto, al travaglio e, quindi, al parto pretermine. Inoltre, c’è anche la componente vascolare, perché sappiamo che questo virus altera la condizione dei reni, per cui tutto questo ha refluenze negative a livello placentare. Infine, c’è un altro dato che è venuto fuori su questo tema nelle riviste scientifiche Lancet e JAMA, che merita una riflessione. Si tratta della solita faccenda che una maggiore prematurità si verifichi su alcune etnie come ispanici e neri, ciò è dovuto alla disparità economica. Questa variabile, a mio avviso, è molto importante perché ci fa capire come la prematurità non sia determinata da un’unica componente, ma abbia una causa multifattoriale».
Questi dati salgono anche perché i medici tendono ad intervenire con un cesareo in caso di infezione grave da Covid della donna incinta?
«Noi viviamo nell’era della medicina difensivistica per cui laddove c’è una situazione che mette a rischio, anche minimo, legata all’infezione materna, si corre in sala operatoria a tirare fuori il feto il prima possibile. Personalmente mi sento di essere d’accordo, perché dobbiamo garantire anche la vita del bambino. In passato, ma ancora qualcuno dice di dare priorità alla salvezza della madre e poi si pensa al bambino, secondo me invece vanno tutelati entrambi, perché hanno un valore identico, senza nulla togliere all’adulto, ma il bambino ha una dignità pari alla madre. Quindi anche questo dato influisce sulla prematurità».
Cosa comporta il parto prematuro per madre e bambino? La madre trasmette il Covid al feto?
«No, il dato confortante è proprio che la trasmissione verticale, nei fatti, è praticamente quasi inesistente, quei casi che si sono verificati si contano con le dita di una mano. Il problema della prematurità in generale è una tragedia per la famiglia: per il padre, la madre, il bambino, fratelli o sorelle. Il “lutto” che devono elaborare è pazzesco e può determinare traumi permanenti di tipo psicologico sia per i familiari sia per il bambino. Oggigiorno noi riusciamo a garantire una sopravvivenza veramente alta grazie alle nuove tecnologie e allo sviluppo della neonatologia, che è comunque una scienza molto giovane, quindi, stiamo progressivamente riuscendo ad intervenire perché abbiamo capito alcuni meccanismi, salvando vite. Però, anche qui, dipende dall’età gestazionale perché è chiaro che se parliamo di un estremo pretermine e parliamo di bambini sotto le 27 settimane (circa sei mesi e mezzo) è un discorso, che cambia drasticamente se parliamo invece di bambini pretermine che vanno dalla 34esima alla 37esima settimana. Questi ultimi sono bambini gestiti come nido, perché se il peso è adeguato non c’è bisogno di grossi interventi, i problemi reali sono quando scendiamo sotto le 32 settimane perché vanno ricoverati e hanno bisogno di procedure invasive. Vivono il distacco con la famiglia, oggi più che mai a causa del problema pandemico. Prima della pandemia tenevo il reparto aperto h 24, adesso stiamo cercando di fare entrare le famiglie con tutte le precauzioni possibili. Intanto, stiamo facendo una massiccia promozione della vaccinazione tra i genitori, in accordo con il direttore generale Colletti e con Antonio Maiorana, responsabile dell’Ostetricia».
Lei è favorevole alla vaccinazione delle donne incinte?
«Assolutamente sì, è necessario pensare che la donna gravida, per definizione, sia un soggetto fragile con una temporanea “immunodepressione”, quindi la protezione va fatta».