Dal palazzo

L'intervista

«Neo-abilitati e in trincea contro il Coronavirus, lo Stato non si dimentichi di noi»

Tanti giovani medici sono in prima linea nella lotta contro la pandemia. L'intervista di Insanitas a Germana Canzoneri, arruolata all’interno dell’Usca (Unità speciali di continuità assistenziale) del distretto di Corleone.

Tempo di lettura: 6 minuti

PALERMO. Chiamati “alle armi” durante lo scoppio della pandemia, tanti giovani medici hanno risposto positivamente alla richiesta di aiuto arrivata dallo Stato, dai colleghi e dalla popolazione.

Per capire qual è il loro stato d’animo attuale e le speranze che ripongono nel futuro, abbiamo intervistato Germana Canzoneri, laureata in “Medicina e Chirurgia” all’Università di Palermo ad ottobre del 2018, arruolata all’interno dell’Usca (Unità speciali di continuità assistenziale) del distretto di Corleone.

Qual è stato il suo percorso lavorativo dalla laurea ad oggi?
«Ho fatto il tirocinio post laurea, che è appena stato abolito ma secondo me era molto utile. Ad esempio, in tre mesi io ho affiancato un medico di famiglia, sono stata un mese nel reparto di chirurgia plastica, un’esperienza altamente formativa, e poi ho fatto medicina interna. A marzo del 2019 ho superato l’esame di abilitazione e sono entrata subito in graduatoria per lavorare in continuità assistenziale, iniziando a giugno come sostituto medico.  A marzo 2020, quando è scoppiata la pandemia, facevo le guardie mediche ad Alia con molta paura, anche perché durante il lockdown le strade erano deserte e avevo timore di un’aggressione.  Nel frattempo è uscito il bando per le Usca a cui hanno risposto pochi medici. Anche se ero un po’ tentennante perché è un lavoro a rischio, ho dato la mia disponibilità. Quando hanno iniziato ad istituire le Usca in tutti i distretti mi hanno convocata e ho scelto di andare al distretto di Corleone. Ho iniziato a lavorare a maggio e ad oggi sono lì».

Come funziona il sistema delle Usca?
«Il lavoro è quello di gestire i pazienti Covid positivi o quelli che hanno avuto contatti con persone risultate positive al Coronavirus presenti nel territorio di propria competenza. Ci affianchiamo ai medici di base, ai pediatri di famiglia e ai medici di continuità assistenziale, prendendo in carico i pazienti positivi al Covid – 19 o quelli da monitorare. Il medico di famiglia o di continuità assistenziale ci segnala un paziente perché ha sintomi accertati, quindi noi andiamo a controllarlo. Altre volte è il paziente che attiva il lavoro delle Usca, perché è obbligatorio denunciarsi al medico di famiglia quando si viene a contatto con un positivo.  Quando invece qualcuno che fa il tampone privatamente risulta positivo, è il laboratorio di analisi che segnala il paziente positivo al “Dipartimento di Prevenzione e Igiene”. Poi noi seguiamo sempre la procedura standard, pertanto la richiesta di prendere in carico il paziente deve arrivare dal medico di famiglia che ci invia la scheda di segnalazione via mail. A questo punto iniziamo a monitorare i pazienti, che se hanno avuto un contatto diretto con un positivo devono aspettare in quarantena i 10 giorni decisi dal Dpcm. Al decimo giorno facciamo il tampone per vedere se si sono positivizzati oppure no».

Con i pazienti positivi in che modo intervenite?
«Ogni giorno li chiamiamo e li monitoriamo chiedendogli la temperatura, la saturazione e i parametri vitali. Ai pazienti che risultano positivi diciamo di comprare il saturimetro, molto facile da usare, quindi spieghiamo come farlo in autonomia. Tra questi molti sono asintomatici, ma altri cominciano ad avere la febbre, la tosse, anosmia, disgeusia, c’è chi ha difficoltà respiratorie, quindi se il paziente ha bisogno lo andiamo a controllare e iniziamo una terapia a casa. In questo modo alleggeriamo i pronto soccorso e gli ospedali che hanno pochi posti letto. Non è il caso, in questa situazione, di portare in ospedale chi possiamo curare a casa. Tra l’altro abbiamo iniziato anche a fare i tamponi nelle scuole, non per screening ma perché abbiamo avuto dei casi positivi. Per cui, se un alunno risulta positivo, insieme al Dipartimento Prevenzione e Igiene, isoliamo tutta la classe e la mettiamo in quarantena. Poi facciamo il tampone a tutti gli alunni, se sono negativi torna tutto alla normalità altrimenti prendiamo in carico i positivi e seguiamo la stessa trafila».

Quali son i tipi di farmaci che utilizzate?
«Cortisone, azitromicina come antibiotico e, in alcune occasioni, iniziamo pure l’eparina. Inoltre, li teniamo sotto copertura di tachipirina. Quando si presentano i sintomi iniziamo anche il monitoraggio della saturazione, se scende siamo in allerta perché a volte desaturano anche se sono sotto terapia. Se la saturazione continua a scendere, infatti, li dobbiamo ospedalizzare. Finora è successo solo due volte e un paziente è svenuto. Nella mia Usca siamo quattro medici, tre infermieri e un amministrativo che ci è stato dato in prestito dal Distretto perché c’è un lavoro enorme da fare. Il territorio è vastissimo (Bisacquino, Campofiorito, Chiusa Sclafani, Contessa Entellina, Corleone, Giuliana, Roccamena) e coprire ogni angolo magari in giornata è molto difficile».

Cosa vi aspettate dalla cittadinanza e dalle istituzioni?
«Mi piacerebbe che tutti prendessero sul serio il Coronavirus, perché molti sono ancora scettici, ma il virus c’è. Noi che siamo sul campo di battaglia ne vediamo gli effetti con i nostri occhi. La prevenzione è fondamentale, rispettando le regole portando la mascherina, lavando le mani, evitando posti affollati e mantenendo il distanziamento. Le restrizioni fanno ben poco se poi le persone fanno i festini a casa di nascosto con amici a parenti. Ciò porta del male a noi stessi, alle persone che si ammalano, agli ospedali che sono ingolfati. Dalle istituzioni, invece, ci aspettiamo che ci aiutino a sbloccare la situazione dell’imbuto formativo rappresentato dalle scuole di specializzazione. Come si è visto, quando a marzo le regioni del Nord hanno reclutato medici in tutta Italia hanno risposto in tantissimi, ciò vuol dire che i medici ci sono, solo che spesso non trovano un’occupazione perché non si riesce a specializzarsi».

«Non dobbiamo per forza andare all’estero a lavorare, perché l’Italia ha bisogno di medici qui siamo tanti e siamo bravi, vorremmo essere messi nelle condizioni di poter aiutare gli altri con serenità. Spero che questa esperienza aiuti il Governo a capire che deve investire di più nella sanità e mi auguro che dopo questa esperienza possa rimanere qualcosa anche a noi che ci siamo spesi. Come medico appena abilitato e senza specializzazione mi sono lanciata con i miei colleghi in questa esperienza e speriamo di non finire poi nel dimenticatoio, perché sarebbe brutto nei confronti di giovani che si stanno immolando per fare un lavoro pesante come questo. A volte sto anche 12 ore sotto la tuta, con la mascherina, e onestamente è pesante. Amo il mio lavoro e sono gratificata dall’affetto e dalla stima dei pazienti, lo faccio per questo motivo, ma penso che lo Stato in cui viviamo non merita quello che siamo facendo».

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