Ha recentemente ricevuto il riconoscimento “Paladini Italiani della Salute” per l’impegno a tutela della salute pubblica, il professore Giovanni Grasso (nella foto), docente di Neurochirurgia del Dipartimento di “Biomedicina, Neuroscienze e Diagnostica avanzata” dell’Università di Palermo e responsabile dell’Unità operativa di “Neurochirurgia oncologica” del Policlinico “Giaccone”. Lo studio che gli ha premesso di ricevere il premio nella sala della Protomoteca del Campidoglio a Roma, è stato condotto da un team composto da ricercatori UniPa e di altri atenei italiani. Poi è stato pubblicato sulla rivista scientifica internazionale World Neurosurgery.
Qual è il focus della ricerca scientifica che ha condotto e pubblicato su World Neurosurgery?
«Lo studio riguarda fondamentalmente la valutazione della relazione tra i tumori cerebrali e una citochina: l’eritropoietina (EPO), una molecola che agisce a livello dell’eritropoiesi favorendo la maturazione dei globuli rossi e quindi la loro produzione. Questa ovviamente è la funzione convenzionale dell’eritropoietina, molecola che studio da tantissimi anni, anche negli Stati Uniti in cui ho soggiornato per parecchio tempo, perché si è rivelata essere una citochina pluripotente, cioè in grado di svolgere sia un’azione neuro-protettiva sia un’azione angiogenetica, in quanto cerca di favorire la formazione di nuovi vasi e strutture vascolari. Gli studi condotti in merito sono stati numerosi e il mio gruppo di ricerca è stato pioniere in quest’ambito, infatti, abbiamo dimostrato più volte che l’eritropoietina somministrata dall’esterno, per via esogena, è in grado di modificare positivamente l’evoluzione di patologie di natura emorragica cerebrale e lesioni del midollo spinale. A questo punto sono stati avviati e condotti dei trials clinici per verificare tali aspetti».
Come avete verificato che l’eritropoietina agisce anche in modo non convenzionale?
«L’eritropoietina agisce anche a livello del sistema nervoso centrale perché dei suoi ricettori specifici localizzati hanno un’azione pure in quel contesto. Noi abbiamo dimostrato tutto ciò attraverso diversi studi molecolari, in seguito all’interruzione immediata di alcuni studi clinici. Questa molecola, infatti, veniva somministrata a donne con cancro al seno e ad alcune persone con altre patologie oncologiche per favorire il miglioramento dell’anemia attraverso il processo di eritropoiesi. Si è visto che le donne a cui veniva somministrata questa sostanza andavano incontro ad una mortalità precoce a causa di una crescita maggiore del tumore. Da qui sono partite delle ricerche scientifiche, le quali sono riuscite a dimostrare che proprio l’eritropoietina stimola la crescita più veloce del tumore».
Quindi di tutti i tumori non soltanto di quello cerebrale…
«Della gran parte dei tumori, come quello renale o polmonare, inoltre ci sono questi due studi clinici interrotti bruscamente proprio per questa ragione. In seguito abbiamo cercato di capire se l’eritropoietina agisse anche a livello dei tumori cerebrali di alto grado (gliomi), i quali purtroppo danno una sopravvivenza media molto bassa che si aggira tra i 12 e i 14 mesi dalla prima diagnosi. Il glioblastoma è il tumore più grave e fatale per i pazienti, perché rispetto ai gliomi di grado più basso è caratterizzato da un’elevata vascolarizzazione e da una angiogenesi più spiccata. Pertanto abbiamo suddiviso il nostro studio in due grossi filoni: una ricerca clinica bastata sull’utilizzo dei campioni di tumore cerebrale prelevati durante l’intervento chirurgico e uno studio sperimentale con dei ratti come cavie, in cui sono state impiantate delle cellule di glioma per seguirne la crescita nel tempo somministrando l’eritropoietina».
Che risultati avete raggiunto con lo studio sperimentale?
«Con la ricerca sperimentale abbiamo dimostrato che i ratti trattati con l’eritropoietina hanno mostrato un incremento notevole delle dimensioni del tumore rispetto a quelli trattati con placebo. Abbiamo anche studiato le vie di trasduzione che hanno giustificato questa crescita. L’eritropoietina è stata in grado di determinare una vascolarizzazione molto più intensa e una spiccata presenza di cellule tumorali, quindi, tutti elementi che sia immunoistochimica che in western blotting hanno dato valori concordi con la nostra ipotesi di studio. Anche il Ki67, una molecola che noi studiamo normalmente in immunoistochimica nei tumori cerebrali dopo l’asportazione e che è indice di velocità di replicazione tumorale, è notevolmente elevata nei ratti trattati con l’eritropoietina».
Lo studio clinico invece che risultati ha fornito?
«Con i campioni umani abbiamo analizzato i tumori di basso grado, gli astrocitomi anaplastici (tumori di II e III grado) e il glioblastoma che è il massimo grado di malignità (grado IV). In questo modo abbiamo visto che man mano che il tumore evolve verso il più alto grado di malignità, l’eritropoietina esprime la sua positività all’immunoistochimica e al western blotting, in maniera proporzionale alla crescita di malignità del tumore. Quindi in questo modo abbiamo dimostrato a livello sperimentale sia sui ratti sia sugli uomini, che nella crescita di malignità del tumore l’eritropoietina e il suo recettore sono altamente espressi. L’obiettivo di queste ricerche è stato quello di identificare questa congruità di dati che noi avevamo immaginato sulla base di quelle che erano state le esperienze di altri studi su tumori differenti da quelli cerebrali. Da qui la certezza che l’eritropoietina e i suoi recettori giocano un ruolo che a questo punto riteniamo fondamentale nella crescita del tumore».
In che maniera pensate di intervenire adesso?
«La prossima mossa sarà quella di avviare uno studio che ci permetterà di utilizzare degli anticorpi monoclonali in grado di inibire il legame dell’eritropoietina col suo recettore, in modo tale da impedire la crescita vascolare del tumore stesso, ma si tratta di un percorso di studio relativamente lungo. Lo abbiamo già predisposto ed in parte già intrapreso con l’isolamento di cellule staminali da tumore prelevato, con la collaborazione del professore Giorgio Stassi (Dip. Di.Chir.On.S., Università di Palermo) e del suo team di ricerca, ma per avviarlo dobbiamo prima superare alcuni elementi come il fatto che molte sostanze non passano la barriera ematoencefalica, una protezione del sistema nervoso centrale che impedisce alle sostanze tossiche di raggiungere il cervello, ma al contempo impedisce il passaggio di alcune sostanze terapeutiche. Quindi il primo obiettivo è identificare la molecola più idonea che riesca a passare la barriera e, allo stesso tempo, abbia un’efficacia nel bloccare l’azione dell’eritropoietina».
Sui tumori cerebrali come si è evoluta la situazione negli ultimi anni?
«Dal punto di vista terapeutico ancora non siamo riusciti a raggiungere risultati ragguardevoli sui tumori cerebrali con alto grado di malignità. Attualmente la comunità scientifica internazionale utilizza il protocollo Stupp per trattare i pazienti, che è legato alla massima resezione chirurgica, per intervenire poi con la chemioterapia, attraverso una compressa che si chiama Temozolamide, e con la radioterapia. Questo percorso è il gold standard a livello internazionale per trattare i tumori cerebrali di alto grado perché garantisce un miglioramento della sopravvivenza del paziente. Come neurochirurghi siamo riusciti a massimizzare la resezione del tumore utilizzando una tecnologia intraoperatoria all’avanguardia, cioè la fluorescenza, una sostanza che viene somministrata al paziente prima dell’intervento chirurgico e che con un filtro particolare, al microscopio chirurgico, accende il tumore di colore rosso facilitando l’ubicazione della lesione che altrimenti non potrebbe essere identificata a occhio nudo. Cerchiamo di togliere il più possibile senza lasciare residui però c’è un problema di fondo, perché il tumore cerebrale di alto grado non è un normale tumore come generalmente sono quelli localizzati in altri distretti, ma si tratta di una vera e propria malattia, in quanto anche cellule che sembrano apparentemente normali e che quindi non si accendono con fluorescenza, sono cellule malate. Per questo motivo la resezione non supera generalmente il 95%. Non essendo identificate e rimosse queste cellule tumorali continuano la progressione neoplastica della lesione. Il target biomolecolare è quello che probabilmente promette molto di più in questi pazienti. Negli ultimi anni sono stati utilizzati in alcuni studi sperimentali anche dei vaccini, con la possibilità di poter bloccare la crescita delle cellule, ma senza risultati, perché i trials non hanno portato a risultati importanti fino ad oggi. Al momento, stiamo lottando con questi tumori con le spade di legno e senza scudo, per cui qualsiasi ricerca che sia in grado di aggiungere un tassello o un elemento utile a migliorare la sopravvivenza di questi pazienti rappresenta un grosso pezzo di scienza che viene aggiunto. Il nostro centro è all’avanguardia nella cura chirurgica dei tumori cerebrali, potendo contare su un parco tecnologico avanzato e su una esperienza di gestione ragguardevole».