Continuiamo la nostra inchiesta su Hiv ed Aids (clicca qui per il precedente articolo).
In questa seconda puntata, ecco la prima parte dell’intervista al prof. Antonio Cascio, virologo, direttore dell’UOC di Malattie Infettive, anche Centro di Riferimento Regionale per la diagnosi e la cura dell’HIV, del Policlinico Universitario “ Paolo Giaccone” di Palermo.
«L’unico modo – afferma l’esperto – per diagnosticare l’infezione da HIV è il test per l’HIV. La persona che ha contratto il virus Hiv è detta sieropositiva. Il che non equivale ad avere l’AIDS, ma la condizione di sieropositività porterà nel corso degli anni a questo esito soprattutto se il paziente non assume la terapia antiretrovirale.
Riconoscere precocemente la sieropositività in un ragazzo/a significa:
1) potergli offrire precocemente una terapia che rallenterà in maniera significativa la progressione verso l’AIDS;
2) renderlo/a cosciente che può trasmettere l’infezione al suo partner sessuale;
3) permettergli di avere buone prospettive di vita, nonché la possibilità di avere figli».
Sulle modalità di trasmissione- il virologo spiega- «l’HIV viene trasmesso attraverso il contatto con il sangue o i liquidi corporei di qualcuno che è affetto dal virus”. Dunque, è possibile infettarsi durante un rapporto sessuale, soprattutto se omosessuale tra maschio e maschio, ma anche eterosessuale (tra maschio e femmina); attraverso il diretto contatto con una ferita aperta di una persona infetta o comunque un contatto accidentale con sangue o materiale organico infetto (una modalità quest’ultima che riguarda principalmente gli operatori sanitari). I fluidi in cui è presente il virus sono: sangue; liquido pre-eiaculatorio e sperma; secrezioni vaginali, principalmente”.
«Vanno considerate inoltre- aggiunge Cascio- le ipotesi di trasmissione madre-feto e ancora madre-lattante, attraverso l’allattamento al seno e, quindi, il passaggio di latte materno da madre siero-positiva a bambino/a, e l’ipotesi di trasfusione infetta, ormai a rischio molto ridotto visto il sistema di controllo vigente del sangue trasfuso”. “In misura più rara – precisa l’esperto – è teoricamente possibile anche il contagio attraverso la saliva; qualora in quest’ultima siano presenti tracce ematiche come spesso avviene a causa di gengiviti che più sovente colpiscono il soggetto HIV infetto”.
«Bisogna comprendere- sottolinea il professore- che tutte le mucose dell’organismo sono esposte a rischio di contagio: glande e cute interna del prepuzio (parti anatomiche del pene), vagina, congiuntiva dell’occhio, interno dell’ano, narici e interno del naso, bocca. Dunque, da un punto di vista molto generale, possiamo considerare come atteggiamenti sessuali sicuri la masturbazione reciproca, abbastanza sicuri i rapporti protetti da preservativi ed i baci, mentre è ovviamente ad alto rischio un rapporto completo non protetto, soprattutto se anale, ma va valutato anche il potenziale rischio di un rapporto oro-genitale (contatto dei genitali con la bocca, se ne segue ingestione di sperma o contatto con sangue, vedi ad esempio fase mestruale della donna)».
In altre parole il grado di rischio delle diverse pratiche sessuali è diverso: altissimo nei casi di rapporto anale. Perciò aumenta anche la possibilità di contrarre il virus nei rapporti MSM (maschio con maschio). Secondo le stime di eCDC (massimo riferimento di statistica sanitaria in Europa) il 42 per cento di tutte le nuove infezioni è avvenuto tra uomini che hanno fatto sesso con altri uomini. «Il rapporto anale – rileva l’infettivologo – rappresenta, infatti, la principale via di trasmissione: il rischio di contrarre l’infezione a seguito di un rapporto anale passivo è di circa 20 volte maggiore rispetto a quello di un rapporto vaginale. La mucosa vaginale è costituita da un epitelio pluristratificato; quella rettale è protetta invece da un singolo strato di cellule e facilita pertanto il passaggio del virus».
La prevenzione contro l’HIV-AIDS dunque poggia in modo determinante attraverso l’esplicazione dell’attività sessuale in modo consapevole e responsabile. «L’utilizzo del preservativo – evidenzia il professore Cascio – in entrambi i rapporti, vaginale e anale, rappresenta un valido mezzo di protezione, ma non è sicuro al cento per cento, poiché va considerata la possibilità che il profilattico si possa rompere durante il rapporto». «In questa ipotesi – continua il clinico – non c’è modo di annullare il rischio, ma per diminuirlo il più possibile, se si dubita ovviamente dello stato di buona salute o si conosce la condizione HIV del partner, è opportuno ricorrere subito alla somministrazione di farmaci antiretrovirali (chemioprofilassi). E questo vale per chiunque sia stato esposto al rischio di trasmissione del virus, compresi gli operatori sanitari che abbiano subito l’accidentale contatto con materiale organico infetto e le persone che abbiano subito violenza sessuale».
Il professore chiarisce come sarebbe possibile adottare una chemioprofilassi preventiva nell’ipotesi in cui si preveda che si sarà esposti a un rischio di infezione (vedi stili di vita orientati a rapporti promiscui), ma diversamente da altri Paesi, in Italia non è accessibile, poiché l’antiretrovirale idoneo ovvero l’emtricitabina-tenofovir (molecola) non è in atto approvato quale mezzo di profilassi e ha comunque un alto costo.
Mentre per quanto riguarda la popolazione giovanile, il professore Cascio osserva «come ci sia ancora molto da fare a livello culturale per orientare i giovani al sesso sicuro, ma anche all’adozione di comportamenti consapevoli circa l’uso di sostanze stupefacenti, poiché l’assunzione, ad esempio, di LSD, anfetamine etc, determinando un abbassamento dei livelli di coscienza, e quindi di vigilanza sulla propria condotta, aumenta il rischio di contrarre l’HIV».
NUOVE DIAGNOSI DI INFEZIONE DA HIV TRA ADOLESCENTI 15-17 ANNI E GIOVANI 18-25 ANNI.
Cascio aggiunge alcuni dati: «Dal Centro Operativo AIDS dal 2010 al 2015, in Italia sono state segnalate 61 nuove diagnosi di HIV in adolescenti con età compresa tra i 15 e i 17 anni e 2.475 nuove diagnosi di HIV in giovani con età compresa tra i 18 e i 25 anni. Il numero di nuove diagnosi di infezione da HIV in queste due popolazioni si mantiene stabile nel tempo. Nel 2015, rappresentano l’1,8% (12 casi) e il 10,7% (369 casi) delle nuove diagnosi, rispettivamente per le due fasce d’età».
Nell’ultimo anno di riferimento (2015), la classe d’età 15-17 anni è rappresentata soprattutto da femmine (66,7%); il 75% erano stranieri, suggerendo che in questi casi l’infezione possa essere avvenuta all’estero; il 50,0% aveva 17 anni. Nella fascia d’età 18-25 anni, il 77,8% (276 casi) era rappresentato da maschi e il 42,3% (155 casi) da stranieri. Tra i casi con età tra i 15-17 anni, le modalità di trasmissione più rappresentate sono state quella eterosessuale (58,3%) e omosessuali maschi (25,0 ).
«Mentre – continua il professor Cascio – Tra i casi, con età compresa tra i 18 e i 25 anni, il 49,3% era rappresentato da omosessuali maschi; il 22,5% da eterosessuali femmine, il 15,2% da eterosessuali maschi, lo 0,8% da IDU (infezioni di tossici per via endovenosa). L’11,9% non riportava nessuna modalità di trasmissione. Nella classe d’età 15-17 anni, il 57,1% dichiarava come motivo del test un comportamento a rischio non specificato e il 28,6% controlli specialistici legati alla riproduzione sia nella donna che nel partner (gravidanza, parto, interruzione volontaria della gravidanza)».
Va evidenziato come, nella classe d’età 18-25 anni il motivo di effettuazione del test più rappresentato è a seguito di un comportamento a rischio non specificato (28,3%), seguito dalla presenza di sintomi HIV (21,1%). L’8,2% dichiarava di aver effettuato il test in seguito a controlli specialistici legati alla riproduzione sia nella donna che nel partner (gravidanza, parto, interruzione volontaria della gravidanza).
Dalla metà degli anni ’80 a oggi la distribuzione delle nuove diagnosi di infezione da HIV per modalità di trasmissione ha subito un notevole cambiamento: la proporzione di tossicodipendenti è diminuita dal 76,2% nel 1985 al 3,2% nel 2015, mentre sono aumentati i casi attribuibili a trasmissione sessuale, specialmente omosessuale. In particolare, i casi attribuibili a trasmissione eterosessuale sono aumentati dall’1,7% nel 1985 al 44,9% nel 2015 e i casi attribuibili a trasmissione tra omosessuali maschi nello stesso periodo sono aumentati dal 6,3% al 40,7% .
Complessivamente dall’inizio dell’epidemia (1982) a oggi, in Italia sono stati segnalati 68 mila casi di AIDS, di cui 43 mila sono deceduti. Molte persone arrivano allo stadio di AIDS conclamato ignorando la propria sieropositività.
Domani il seguito dell’intervista al Prof. Antonio Cascio che chiude la nostra inchiesta sull’AIDS.