di Marta Cianciolo
La Corte Costituzionale ha stabilito che, nell’ambito della procreazione medicalmente assistita, il consenso dell’uomo non può essere revocato dopo la fecondazione. La Corte, nella sentenza n. 161 del 2023 depositata il 24 luglio scorso, ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Roma in relazione all’art. 6, comma 3, ultimo periodo, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita). Tale norma rende possibile, per effetto della crioconservazione, la richiesta dell’impianto degli embrioni non solo a distanza di tempo ma anche quando sia venuto meno l’originario progetto di coppia.
Il caso che ha dato luogo alla questione di legittimità ha visto la signora A.C. instaurare giudizio civile affinché la struttura sanitaria E.H., presso la quale la stessa aveva in precedenza intrapreso il percorso di PMA, fosse condannata al decongelamento dell’embrione crioconservato ed al suo impianto. Il percorso riguardava un iniziale progetto di coppia ed era stato accompagnato dall’assenso di entrambi i coniugi, i quali avevano acconsentito, nel settembre del 2017, alla crioconservazione dell’embrione formatosi a seguito della fecondazione. In seguito, il trasferimento in utero dell’embrione non era stato tuttavia realizzato perché il marito, nel gennaio 2018, si era allontanato dalla residenza familiare. Nel marzo 2019, era stata formalizzata tra le parti la separazione consensuale e, nel 2020, dopo aver domandato la dichiarazione giudiziale della cessazione degli effetti civili del matrimonio, il marito aveva formalmente revocato il consenso all’applicazione delle tecniche di PMA.
I dubbi sulla legittimità della norma attengono all’asserito contrasto con gli articoli 2, 3, 13 comma 1, 32 comma 2 e 117 primo comma della Costituzione, nonché con l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, mettendo in risalto, sostanzialmente, la tutela della salute psicofisica della donna e la sua libertà di autodeterminazione a diventare madre; la libertà di autodeterminazione dell’uomo a non divenire padre; la dignità dell’embrione; i diritti del nato a seguito della PMA.
La Corte ha affrontato la questione relativa alla violazione del principio di eguaglianza – prospettata sotto il profilo della disparità di trattamento perché l’irrevocabilità del consenso sacrificherebbe soltanto la libertà individuale dell’uomo, potendo invece la donna sempre rifiutare il trasferimento in utero dell’embrione – ritenendola infondata. Il giudice di legittimità costituzionale ha infatti ritenuto che, nel caso prospettato, la situazione in cui versa la donna è profondamente diversa da quella dell’uomo: dopo la fecondazione solo lei resta esposta «all’azione medica», che può sempre «legittimamente rifiutarsi di subire», data l’«ovvia incoercibilità del trattamento», al quale si contrappone la tutela dell’integrità psico-fisica della donna.
Per quanto riguarda il contrasto rispetto agli articoli 2 e 3 della Costituzione, e cioè alla violazione della libertà di autodeterminazione dell’uomo nel caso di un’irrevocabilità del consenso, prevista dall’art. 6, comma 3, ultimo periodo che lo costringerebbe a diventare genitore contro la sua volontà, anche in questo caso la questione è stata giudicata non fondata. A giudizio della Corte, infatti, il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti insito nell’art. 6 richiamato, non supera la soglia dell’irragionevolezza. La Corte è consapevole delle conseguenze della crioconservazione, che spesso conduce ad una scissione temporale tra la fecondazione e l’impianto, all’interno della quale è ben possibile che, per il decorso del tempo, venga meno la volontà dei coniugi di mantenere il rapporto sul quale in origine si era fondato il comune progetto di genitorialità. Tuttavia, ciò non è sufficiente a ritenere incostituzionale l’irrevocabilità del consenso stabilita dalla norma sopra citata.
Innanzi tutto perché il consenso è prestato nell’ambito di un puntuale obbligo informativo prodromico e disciplinato dallo stesso art. 6 della l. n. 40 del 2004. Le informazioni che il medico è tenuto a fornire devono pertanto necessariamente investire tutte le conseguenze del vincolo derivante dal consenso espresso, quindi sia la possibilità che si verifichi uno iato temporale (anche significativo) tra fecondazione e impianto, sia l’eventualità che questo avvenga quando, nelle more, sono venute meno le iniziali condizioni di accesso alla PMA.
Inoltre, tale tipo di consenso è ritenuto intrinsecamente diverso da quello ascrivibile alla nozione di “consenso informato” al trattamento medico, perché nel consenso previsto dall’art. 6 si esprime una fondamentale assunzione di responsabilità e viene manifestata l’intenzione di avere un figlio.
Va poi considerata la posizione della donna, che nell’accedere alla PMA è coinvolta in via immediata con il proprio corpo, in forma più rilevante rispetto a quanto accade all’uomo. Infatti, al fine di realizzare il comune progetto genitoriale viene, innanzitutto, sottoposta a impegnativi cicli di stimolazione ovarica, relativamente ai quali non è possibile escludere l’insorgenza di patologie, anche gravi. All’esito positivo di detta terapia, la donna viene poi sottoposta, nell’ipotesi decisamente più ricorrente che è quella della fecondazione in vitro, al prelievo dell’ovocita, che necessariamente (a differenza di quanto accade per l’uomo) consiste in un trattamento sanitario particolarmente invasivo, tanto da essere normalmente praticato in anestesia generale. A ridosso del prelievo, nell’arco di un brevissimo spazio temporale, si perviene poi alla fecondazione.
Possono essere peraltro necessari, successivamente alla fecondazione dell’embrione (e alla sua crioconservazione), ulteriori trattamenti farmacologici e analisi, nonché interventi medici, come nel caso del giudizio a quo, in cui la ricorrente si è dovuta sottoporre a specifiche terapie prodromiche all’impianto.
L’accesso alla PMA comporta quindi per la donna il grave onere di mettere a disposizione la propria corporalità, con un importante investimento fisico ed emotivo in funzione della genitorialità che coinvolge rischi, aspettative e sofferenze, e che ha un punto di svolta nel momento in cui si vengono a formare uno o più embrioni. A questo investimento, fisico ed emotivo, che ha determinato il sorgere di una concreta aspettativa di maternità, la donna si è prestata in virtù dell’affidamento in lei determinato dal consenso dell’uomo al comune progetto genitoriale.
L’irrevocabilità di tale consenso appare quindi funzionale a salvaguardare l’integrità psicofisica della donna – coinvolta, come si è visto, in misura ben maggiore rispetto all’uomo – dalle ripercussioni negative che su di lei produrrebbe l’interruzione del percorso intrapreso, quando questo è ormai giunto alla fecondazione.
In ultimo, la Corte ha riconosciuto la complessità della questione, atteso che la scelta preponderante della donna coinvolge inevitabilmente interessi antagonisti, ed ha dunque invitato gli ordinamenti ad adottare soluzioni differenti.
Certamente la ricerca di un punto di equilibrio, anche diverso da quello attuale e prospettato dal giudice di legittimità costituzionale, non può che ricadere primariamente sul legislatore.