Da sempre l’essere umano deve dividere i proprio spazi con le altre creature terrestri, tra cui virus e batteri. Soltanto negli ultimi secoli, però, assistiamo al continuo incremento di patologie dette del “benessere” o quelle associate alla massiccia industrializzazione. Tra le malattie infettive emergenti che si stanno diffondendo più velocemente nei Paesi industrializzati c’è la colite da Clostridioides difficile, oggetto di uno studio (CLICCA QUI) pubblicato sulla rivista scientifica Infection (casa editrice “Springer”) da un gruppo di ricercatori italiani, tra cui Antonio Cascio (nella foto di Insanitas), professore di Malattie Infettive e Tropicali all’Università di Palermo e direttore della relativa Unità Operativa Complessa del Policlinico “Giaccone”. L’obiettivo della ricerca è stato quello di fornire i dati sull’incidenza dell’infezione da C. difficile in Sicilia (la più grande e la quinta regione più popolosa d’Italia) durante un periodo di 10 anni, in cui è stato dimostrato l’aumento dell’incidenza di 40 volte superiore.
Colite da Clostridioides difficile
L’infezione da Closteridioides difficile è, in alcuni Paesi, la più comune tra quelle nosocomiali e causerebbe circa 15.000 morti l’anno negli USA e 3.700 nell’Unione Europea. Questo genere di colite è un’infiammazione dell’intestino crasso (colon) provocata dalle tossine dal batterio Clostridioides difficile- chiamato così per la difficoltà incontrata dagli scienziati nell’isolamento dello stesso- generalmente presente nel nostro organismo. Solitamente la patologia si sviluppa dopo l’assunzione di antibiotici, i quali consentono al Closteridioides difficile di proliferare nell’intestino, ma il rischio di sviluppare una colite indotta da C. difficile in forma grave aumenta con l’avanzare dell’età e può causare un ampio spettro di malattie che vanno dalla diarrea non complicata alla colite pseudomembranosa, al megacolon tossico, alla perforazione del colon e all’insufficienza multiorgano, con conseguente significativa morbilità, mortalità, degenza ospedaliera prolungata e costi di ospedalizzazione. I principali fattori di rischio per lo sviluppo dell’infezione da C. difficile sono, quindi: età avanzata, comorbidità, lunga ospedalizzazione, condizioni croniche come malattie epatiche e renali, malattie infiammatorie intestinali, cancro e chemioterapia, inibitori della pompa protonica, trapianto di organi solidi o riceventi di trapianto di cellule staminali ematologiche, recente intervento chirurgico gastrointestinale e precedente esposizione ad antibiotici.
Parametri e dati dello studio
In Sicilia, durante il decennio 2009-2019 sono stati identificati 1.139 casi di C. difficile. Il 97% di questi erano adulti con un’età media di 73 anni per l’uomo e di 64 anni per la donna. Le principali comorbidità presentate dai soggetti presi in esame erano malattie renali, diabete, polmonite e ipertensione. I casi di C. difficile sono stati registrati in 65 ospedali dell’isola: 47 di questi erano ospedali pubblici, 18 erano strutture di assistenza a lungo termine o cliniche private. Da segnalare che in Sicilia ci sono un totale di 70 ospedali pubblici, 23 dei quali non hanno segnalato casi di C. difficile. La distribuzione per distretto dei 65 ospedali segnalanti è la seguente: 20 a Catania, 14 a Palermo, 13 a Messina, 7 a Siracusa, 4 a Caltanissetta, 3 a Ragusa, 2 ad Agrigento, 1 a Enna e 1 a Trapani. Interessante è il dato relativo all’incidenza della patologia nei vari reparti, infatti, il 51% (562/1103) dei casi è stato segnalato nelle Unità di Medicina Interna e Geriatria, il 22,5% (248) nelle Unità di Malattie Infettive, il 7,9% (87) nelle LTCF, Neuroriabilitazione e Unità Spinali, il 5,4% (60) in Chirurgia Generale, e 3,8% (42) in Gastroenterologia. Altri reparti hanno riportato meno del 2% dei casi totali negli adulti.
Conclusioni
La maggior parte dei casi si è verificata nelle aree metropolitane e negli ospedali più grandi, con un’incidenza leggermente superiore nelle donne. La durata media della degenza è stata di 20 giorni senza differenze tra pazienti di sesso femminile e maschile, né tra pazienti deceduti e non. Infezioni concomitanti sono state documentate in almeno il 20,9% dei casi. Il tasso medio di mortalità è stato dell’8,3% nei 10 anni. L’aumento dell’incidenza è sorprendente, nonostante la probabile sottosegnalazione, quindi, sono necessari un sistema di sorveglianza attivo e di alta qualità, oltre la redazione di protocolli condivisi. La sottodiagnosi di C. difficile a causa dell’assenza di sospetto clinico e la sottosegnalazione richiedono iniziative per aumentare la consapevolezza dei medici sulla patologia oggetto dello studio.